Cosa resta da guardare?

Shhh: Southern high hidden histories

Alessia Rollo

© Chiara Samugheo

Già vedo quel piccolo gomitolo di uomini e donne che inizia a rotolare verso Sud, tra le sue strade polverose, nel caldo afoso. L’aria è sospesa, il tempo immobile. 

Hanno gli occhi fissi negli occhi fissi delle persone che incontrano per strada. Forse per abitudine o magari per stupore.

Trascinano faticosamente le loro attrezzature, scrutano gli orizzonti in attesa che qualcosa si muova in questo Sud senza confini e limiti.  

Piano si infilano nelle case, nei campi, nelle piazze e nelle chiese. Attendono, scrutano.

Eccoli poi finalmente estasiati quando qualcosa accade, l’invisibile possiede corpi, luoghi e scene.

I flash illuminano, le camere riprendono, i microfoni registrano. 

Il rito inizia e muore in quel momento. 

Quando un gruppo di antropologi, etnografi svela la realtà, squarcia il velo dell’incanto e chiarisce tutto. La macchina fotografica spiega il mondo, srotola davanti agli occhi e alle menti dei popoli del Sud Italia i loro inganni. 

Allora usciamo dalla caverna di Platone per entrare nella camera lucida.  Abbandoniamo le nostre strutture sociali, i suoi topos e logos. Per molti decenni ce ne vergogniamo anche, ricordando con sorrisi nervosi di quando accendevamo pire ai santi e si era posseduti dei morsi della taranta. Smettiamo di salutare il sole, di festeggiare solstizi e stagioni. 

Le piazze si svuotano, i miracoli non succedono più, le cerimonie rituali svaniscono. Così come scompaiono i fotografi e i registi. Tutto è spiegato, non c’è più nulla da guardare.

“E quindi riti, cerimonie, relazioni sociali e naturali vengono guardate, analizzate e fotografate freddamente per essere catalogate secondo una mentalità positivista che aveva bisogno della camera fotografica”

Non è casuale che Ernesto De Martino, forse il più famoso antropologo del passato secolo, si sia fatto accompagnare nelle sue spedizioni scientifiche nel Sud Italia dall’occhio della camera fotografica, applaudita sin dalla sua nascita per una sua straordinaria qualità: quella di avere un alto coefficiente di indessicalità, cioè segnalare sempre qualcosa di vero, qualcosa che si trovasse realmente di fronte all’obiettivo.

Camera e realtà sembrano aderenti. Quindi per sillogismo anche camera e verità.

 

Succede così che decenni di immagini, suoni, video realizzati a partire dagli anni ’50 sul Sud Italia costruiscono un index molto compatto sulla arcaicità, esoticità e primitivismo delle civiltà che stavano per rimanere fuori dal progresso tecnologico che invece aveva preso ampiamente piede nel Nord Italia.

E quindi riti, cerimonie, relazioni sociali e naturali vengono guardate, analizzate e fotografate freddamente per essere catalogate secondo una mentalità positivista che aveva bisogno della camera fotografica, figlia del progresso e della fede tecnologica, per generare documenti della realtà utili a confutare la verità delle affermazioni antropologiche.

“Ma qualcosa è sfuggito all’occhio fotografico che ha spiegato il mondo come un discorso, mentre la vita rituale è tutto il contrario: significanti senza significati, universo di simboli.”

Ma qualcosa è sfuggito all’occhio fotografico che ha spiegato il mondo come un discorso, mentre la vita rituale è tutto il contrario: significanti senza significati, universo di simboli.

Nel suo “La scomparsa dei riti”, Byung-Chul Han spiega che “i riti e le cerimonie sono azioni umane genuine capaci di far apparire la vita in maniera festosa e magica, mentre la loro scomparsa la dissacra e la profana, rendendola mera sopravvivenza.”

Oggi a distanza di 70 anni è forse lecito domandarsi quale sia stato il ruolo dell’antropologia visiva nella costruzione dell’immagine storico-sociale del Sud Italia.

Questa riflessione personale si è generata dalla presa di coscienza del pensiero storico dell’epoca, dalla sua necessità di sradicare il modello rurale del meridione, della conseguente costruzione della “questione meridionale” e della totale assenza di fotografi del Sud Italia nella rappresentazione di quest’area geografica.

Ma nasce anche dalla stizza e da un’immagine: o dalla stizza in un’immagine.

Nel 1962, Gianfranco Mingozzi realizza il famoso documentario “La taránta”. Una lunga sequenza di scene girate nelle campagne salentine e la voce narrante straziano l’occhio con la desolazione, l’abbandono e la crudeltà del paesaggio e della vita degli abitanti di quei luoghi. Il Salento risulta visivamente un mix tra un film western di Sergio Leone e un documentario su i riti voodoo di Haiti di Maya Daren.

Mingozzi e la sua troupe arrivano poi nei piccoli paesi dove la camera indugia in diverse case, racconta il dolore, enfatizza il male, la noia, i sogni spezzati della gente per giungere finalmente davanti al piazzale della piccola cappella di San Pietro e Paolo a Galatina, meta di pellegrinaggio delle tarantate.

03
Frame estratto da “La taránta” di G. Mingozzi
04
Frame estratto da “La taránta” di G. Mingozzi

È qui che avviene uno svelamento a doppio binario.

La camera è fissata probabilmente sul balcone di fronte l’ingresso della chiesa, per realizzare quello che veniva definito dai fotografi e filmakers dell’epoca “effetto sorpresa”: una tecnica che assicurava una documentazione neutrale della scena senza che i soggetti osservati potessero modificare i propri comportamenti a causa della presenza camera fotografica. 

Il primo svelamento dunque è quello auspicato dal regista verso lo spettatore del film, che doveva conoscere la realtà dei fatti grazie alle rivelazioni della camera.

 

Ritorniamo in campo. La camera inquadra un gruppetto di persone, tra cui una donna di mezza età che inizia il suo rito coreutico-catartico saltellando avanti e indietro verso l’ingresso della cappella. La donna improvvisamente alza lo sguardo e scorge la telecamera, torna indietro e apostrofa il cameramen con un inconfutabile “Anculu a mammata”(ndr. “Vaffanculo a tua madre).

Ecco il secondo svelamento. La camera ha squarciato il velo, ha violato il rito e sghermito la fede.

Quella donna lo sa, ha compreso pienamente che il rito muore perché spiegato agli occhi e all’esterno. 

Cosi come in altre immagini di Chiara Samugheo e Franco Pinna, sguardi furiosi di rivolgono alle camere dei fotografi che cercano di documentare affannosamente. 

© Franco Pinna

“Il mondo magico rituale è visivamente assente: impossibile per lo spettatore capire ciò che osserva, dato che nulla sente e troppo vede. Come l’eros che si trasforma in pornografia quando tutto è chiaro e nulla rimane all’immaginazione.”

pinna
© Franco Pinna

Queste fotografie, sicuramente di una grande potenza estetica sono state usate come documenti storici e divulgativi per decenni.

Ma cosa dimostrano e cosa stanno indicando esattamente?

Sfogliando i libri, le riviste o visionando i filmati ciò che manca è esattamente quello verso cui le macchine puntano. 

Dov’è la magia, l’incanto che avrebbero dovuto popolare corpi, luoghi e scene? 

Il mondo magico rituale è visivamente assente: impossibile per lo spettatore capire ciò che osserva, dato che nulla sente e troppo vede. Come l’eros che si trasforma in pornografia quando tutto è chiaro e nulla rimane all’immaginazione.

Cosa c’era dunque da guardare?

 

In un’epoca in cui si smantellano i modelli dominanti di pensiero e in cui si brinda alla diversità culturale si dovrebbero incoraggiate nuove narrative visive nel e sul Sud Italia che possano reintegrare le rappresentazioni del passato e arricchirle attraverso un “reincanto del mondo”.

Se una parte della vita sociale del Sud è stata appiattita da un razionalismo positivista che non è riuscito a trasmettere la complessiva di un sistema e delle sue manifestazioni culturali molto ci resta molto da vedere in termini di contenuti e di forme auspicandosi che in futuro si guardi con più attenzione e si lasci più spazio ad auto-rappresentazioni visive di questo lembo di terra.

chiara samugheo
© Chiara Samugheo

Alessia Rollo

 
Curatrice di Shhh
Artista visiva e ricercatrice di progetti basati sul Mediterraneo