Già vedo quel piccolo gomitolo di uomini e donne che inizia a rotolare verso Sud, tra le sue strade polverose, nel caldo afoso. L’aria è sospesa, il tempo immobile.
Hanno gli occhi fissi negli occhi fissi delle persone che incontrano per strada. Forse per abitudine o magari per stupore.
Trascinano faticosamente le loro attrezzature, scrutano gli orizzonti in attesa che qualcosa si muova in questo Sud senza confini e limiti.
Piano si infilano nelle case, nei campi, nelle piazze e nelle chiese. Attendono, scrutano.
Eccoli poi finalmente estasiati quando qualcosa accade, l’invisibile possiede corpi, luoghi e scene.
I flash illuminano, le camere riprendono, i microfoni registrano.
Il rito inizia e muore in quel momento.
Quando un gruppo di antropologi, etnografi svela la realtà, squarcia il velo dell’incanto e chiarisce tutto. La macchina fotografica spiega il mondo, srotola davanti agli occhi e alle menti dei popoli del Sud Italia i loro inganni.
Allora usciamo dalla caverna di Platone per entrare nella camera lucida. Abbandoniamo le nostre strutture sociali, i suoi topos e logos. Per molti decenni ce ne vergogniamo anche, ricordando con sorrisi nervosi di quando accendevamo pire ai santi e si era posseduti dei morsi della taranta. Smettiamo di salutare il sole, di festeggiare solstizi e stagioni.
Le piazze si svuotano, i miracoli non succedono più, le cerimonie rituali svaniscono. Così come scompaiono i fotografi e i registi. Tutto è spiegato, non c’è più nulla da guardare.