Un corpo femminile pende dalle spalle di un uomo che si incammina verso una macchia verde. Lo sguardo della giovane donna occhialuta aggancia quello dello spettatore. Lo obbliga a osservare qualcosa in modo calmo e risoluto.
Tutto funziona in quell’immagine e tutto stona. Il corpo di Claudia tutt’altro che abbandonato e rassegnato su quello dell’imponente uomo è l’asse di un pensiero che ti obbliga a riflettere e ad rinunciare a tutto quello che sai.
Addentrandosi nel lavoro di Claudia Amatruda per la prima volta ho avuto l’impressione di essere un detective sulle tracce di un mistero. In questa intervista ho cercato di seguire le piste di presenza, assenze, sospensioni e frammenti attraverso le quali questa talentuosa e complessa fotografa ci vuole raccontare l’esplorazione dei limiti del suo corpo, della relazione del suo peso con gli altri e la necessità di trovare altre soluzioni visive al concetto di corpi normodotati.
Claudia nata a Foggia nel 1995 è la prima bellissima storia nascosta del Sud Italia che ci prepariamo ad ascoltare.
Alessia Rollo:
Claudia, Naiade è il tuo primo libro fotografico. Ci racconti come è entrata la fotografia nella tua vita?
Claudia Amatruda:
La fotografia entra in punta di piedi nella mia vita, a 16 anni. E’ stata una scoperta lenta, un gioco fino a quando poi a 19 anni, dopo il rivelamento della mia malattia, è entrata di prepotenza risvegliandomi dallo shock di quella scoperta e letteralmente facendomi alzare dal letto per documentare ciò che mi stava succedendo.
E’ stata un’essenziale via d’uscita dal caos dei primi anni di malattia. Subito dopo ho abbandonato l’idea di iscrivermi alla facoltà di medicina e ho iniziato a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Foggia e contemporaneamente un Master in Fotografia Documentaria a Pescara.
Ho iniziato a documentare tutto anche inconsciamente. La macchina veniva con me da ospedale in ospedale. Più che foto erano snapshots. Quando stavo troppo male mi facevo fotografare da mia madre.
Ho iniziato a studiare la fotografia come mezzo terapeutico: il libro fotografico è venuto dopo 2 anni di raccolta di materiale.
Alessia Rollo:
Qual è il tuo rapporto con la fotografia?
Claudia Amatruda:
All’inizio ho davvero pensato che la fotografia avesse per me un ruolo salvifico. E forse lo ha avuto per tutto il periodo di creazione del progetto Naiade, non ho mai sottovalutato il significato terapeutico che avesse la fotografia per me. Naiade è una ninfa delle acque, un ristoro che per me non è solo metaforico ma anche fisico: nell’acqua infatti il mio dolore si placa e tutto si calma.
La fotografia come l’acqua è terapeutica ed è stata utilizzata da molti autori per metabolizzare qualsiasi tipo di dolore o situazione intima difficile. Lo stesso è stato per me. Dopo qualche anno però ho capito che la fotografia non ti salva, ti aiuta si, ma a salvarti sei tu stessa con l’aiuto di persone che ti vogliono bene. Adesso la fotografia per me è luogo di libertà, è l’esperienza vitale più pura. In futuro chissà, sono curiosissima di sapere quali ruoli ricoprirà ancora nella mia vita!
Alessia Rollo:
Ci racconti di Naiade?
Claudia Amatruda:
Naiade rappresenta me stessa, è la mia storia. Il progetto è iniziato nel 2017 con una serie di autoscatti in piscina, l’unico luogo dove mi sentivo a casa, dove potevo essere me stessa senza nessun dolore; poi è cresciuto durante un Master in Progetto Fotografico a Pescara, anni in cui sono stata seguita da Michele Palazzi, il primo professore che ha creduto in me e mi ha spronata nel tirar fuori tramite la fotografia, tutto ciò che stavo vivendo. Si è trasformato quindi in un diario fotografico, e nel 2019 poi, grazie all’aiuto della mia photoeditor Fiorenza Pinna, il progetto si è trasformato in un libro fotografico prodotto tramite crowdfunding, in cui snapshots, autoritratti e fotografia documentaria si alternano accompagnandomi nella scoperta della mia malattia. Dopo l’uscita del libro ci sono state le presentazioni in giro per l’Italia, e mi sembrava surreale riuscire a parlare di questo lavoro a così tante persone ricevendo da parte loro continui ringraziamenti per aver messo in luce le sofferenze invisibili attraverso l’arte. Naiade è stato una terapia prima di tutto per me, e ha creato una rete di condivisione, empatia, apertura delle persone che non mi sarei mai aspettata. Ho compreso di aver introdotto l’idea di un corpo che supera gli standard sociali e da spazio e voce a tutti coloro che sentono di avere un corpo diverso.
Alessia Rollo:
Quale è la tua relazione con il corpo e quale ruolo riveste la fotografia nel rappresentarlo?
Claudia Amatruda:
La relazione con il mio corpo è di continua conoscenza; cerco di dargli le cure di cui ha bisogno, l’amore che necessita, ma non è mai abbastanza. La malattia è in continua evoluzione, di conseguenza lo è anche il fisico. Per questo è un continuo sforzo da parte mia capire qual è il suo limite e quali sono le sue possibilità, giorno per giorno. La fotografia mi permette di esplorare questa relazione tra la malattia e il corpo, e attraverso gli autoritratti può diventare tutto ciò che voglio: un tramite, un palcoscenico, un orizzonte mobile, una testimonianza visibile nell’invisibilità della condizione.
Alessia Rollo:
Nel tuo ultimo lavoro ho notato che il tuo linguaggio fotografico è mutato. Ci parli di questa tua nuova maniera di pensare il corpo, il suo peso e la relazione con l’altro?
Claudia Amatruda:
Dopo Naiade, non utilizzo più la fotografia come strumento terapeutico e di accettazione, ma come mezzo: desidero che il mio corpo diventi strumento di sperimentazione. Ho costantemente una domanda nella testa: “Come faccio a rappresentare le trasformazioni che la malattia compie su di me senza cadere in vittimismo o eroismo?” Non so se ho ancora trovato visivamente una risposta a questo, ma ho pensato di inscenare la realtà che vivo dando più importanza al processo che c’è dietro ciascuna fotografia, pensata e ripensata. Guardo alle relazioni con gli altri, relazioni in cui mi accorgo delle difficoltà degli altri nello stare accanto ad una persona come me; mi accorgo del peso, fisico e mentale del mio corpo che io stessa mi porto dietro e che riporto poi agli altri perché spesso ho bisogno di essere portata in braccio quando ci sono scale o salite, o esser spinta in carrozzina. Ma non c’è solo questo per fortuna, c’è tanto altro. La fotografia mi sta dando davvero la possibilità di poter toccare temi importanti rappresentandomi in totale libertà.
Alessia Rollo:
Hai modelli visivi che ti hanno inspirata in passato e ora?
Claudia Amatruda:
Ho studiato e osservato tanto i lavori di Nan Goldin, Wolfgang Tillmans e Cindy Sherman. Ora mi sto concentrando sui lavori di Joanna Piotrowska, sugli autoritratti di Jo Spence ma soprattutto sul lavoro di Mari Katayama “Gift” che visto alla biennale di Venezia 2019 e mai più dimenticato, per la sua incredibile capacità di parlare di identità e corpo nei suoi autoritratti.
Alessia Rollo:
Progetti e collaborazioni? Hai mai pensato di uscire dall’autobiografia e lavorare sui corpi di altri?
Claudia Amatruda:
Ho in progetto un paio di mostre ma mi piacerebbe collaborare con altre artiste e perché no, lavorare sui corpi di altri, ma questo richiede una complessità di sguardo che sento di dover ancora raggiungere per rappresentare corpi e storie che non sono semplicemente i miei.
Alessia Rollo:
Cosa ti auspichi per il futuro? Che
immagini ti piacerebbe vedere?
Claudia Amatruda:
Non mi piace parlare di futuro, mi concentro molto sul presente, ma mi auspico sicuramente di conservare il gusto di sorprendermi per tutto ciò che mi circonda e lo sguardo libero da pressioni o pregiudizi, ci vuole un grande sforzo giornaliero per questo. Dalla società mi auspico invece più attenzione nei confronti delle persone con disabilità in termini di accessibilità, di comunicazione e rappresentazione. E’ un momento storico in cui sta prendendo sempre più piede la libertà di espressione dell’unicità dei corpi, che esce dalla sfera privata e diventa condivisibile e comprensibile, e queste sono immagini che mi piacerebbe vedere sempre di più nell’arte in generale e nella vita di tutti i giorni.